L’imperativo della perfezione: umano vs macchina
Viviamo in un’epoca in cui le macchine devono funzionare in modo perfetto, senza errori — pensarci è già un difetto. Chi progetta, aggiorna e distribuisce tecnologia non può permettersi bug o malfunzionamenti. Ma noi, esseri umani, non siamo programmabili: siamo vulnerabili, incostanti, sbagliamo. Sempre.
Fallire è umano — ma non ci è stato insegnato
Quella culturale è una società che stigmatizza il fallimento, legandolo al giudizio, alla vergogna, magari al disprezzo altrui. D’altronde cresciamo imparando a essere bravi, a non sbagliare: dall’errore al voto in meno, dalla difficoltà professionale alle aspettative sociali.
Ma il fallimento è anche una formidabile arma di apprendimento, come sosteneva Amy Edmondson nel suo libro Il giusto errore: sbagliare in ambienti sicuri permette di crescere, di riflettere, di migliorarsi. Invece, nascondiamo il nostro errore e insegniamo ai giovani che non bisogna cadere, anziché valorizzare chi sa rialzarsi.
Perché imparare a fallire è essenziale
- Sviluppa resilienza: cadere non ci annienta, chiedersi “come correggo questo errore?” ci fa andare avanti.
- Alimenta la creatività: sperimentare significa avere il coraggio di uscire dai binari, anche sapendo di poter sbagliare.
- Aiuta chi ha autorità a modellare l’apprendimento: mostriamo come noi adulti affrontiamo il fallimento (come suggerisce d la Repubblica) e incoraggiamo i più giovani a mettersi in gioco.
Il titolo è una provocazione lucida: le macchine devono essere impeccabili, ma noi no… e va bene così. Il problema è che, in troppi contesti — scuola, lavoro, famiglia — non ci è mai permesso fallire. Invece, solo imparando a fallire si diventa audaci, creativi, umani. Abbiamo bisogno di un cambio di paradigma: allenare le nuove generazioni a fallire bene, imparando. Solo così potremo superare l’illusione della perfezione e costruire società più autentiche.




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