Il provvedimento che ferma la politica-fulmine
Un giudice federale statunitense ha temporaneamente bloccato la procedura di “espulsione accelerata” perseguita dall’amministrazione Trump, prevista anche per migranti arrestati lontano dal confine con il Messico. L’iniziativa, attiva da gennaio 2025, consentiva di espellere rapidamente chiunque non dimostrasse di essere presente negli Stati Uniti da almeno due anni, eliminando diritti di difesa essenziali.
La giudice Jia Cobb della Corte distrettuale di Washington DC, nominata da Biden, ha definito il piano come “sconsiderato”, affermando che viola il Quinto Emendamento garantendo diritti minimi ai migranti (giusto processo) e comporta il rischio di deportazioni ingiuste.
Questo intervento giudiziario rappresenta una forte frenata alla strategia delle deportazioni di massa dell’amministrazione Trump.

Contesto e conseguenze
Il meccanismo di “expedited removal”, storicamente limitato ai migranti intercettati entro 100 miglia dal confine e da meno di 14 giorni, era stato drasticamente esteso per includere l’interno del Paese. Questa decisione amplia notevolmente il potenziale raggio delle deportazioni: milioni di individui si sarebbero trovati senza una reale possibilità di difendersi legalmente.
La corte ha ribadito che, pur non mettendo in discussione l’esistenza del sistema, l’amministrazione deve garantire tutele procedurali minime, anche per chi vive negli USA da tempo.
Questa decisione giudiziaria è una pietra miliare nel bilanciamento dei poteri: l’esecutivo, anche nel nome della sicurezza, non può sospendere diritti fondamentali senza controllo. Il rispetto del giusto processo resta un pilastro della democrazia, anche nelle politiche sull’immigrazione. Il provvedimento invita a riflettere su come sia cruciale difendere le garanzie anche nei momenti di crisi, e su quanto il sistema giudiziario possa e debba intervenire per impedire derive autoritarie nella gestione dell’agenda migratoria.




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