Non è polemica, non è populismo. È una scelta. Chiara, cristallina, contabilizzata in miliardi di euro e percentuali di Pil. È la scelta di un’Italia che, anno dopo anno, governo dopo governo, decide di investire più nella potenza di fuoco che nella potenza delle idee, più nel finanziamento degli arsenali che in quello delle aule.
I dati che verranno presto presentati alla Commissione Cultura – organismo sempre più ai margini del dibattito politico, come tutto ciò che concerne il futuro a lungo termine – raccontano una storia di lento, inesorabile declino. Quella della scuola italiana non è un’emergenza improvvisa; è un paziente smantellamento.
I numeri che tacciono
Il diagramma cartesiano della spesa per l’Istruzione rispetto al totale della spesa pubblica è una linea che non fa più scandalizzare nessuno. Ormai assuefatti, parlamentari di maggioranza e opposizione assistono impassibili a un trend che parla da solo:
- 2021 (Governo Draghi): 6,56%
- 2022 (Draghi/Meloni): 6,74%
- 2023 (Governo Meloni): 6,66%
- 2024 (Governo Meloni): 6,36%
- Stima 2025: 6,2%
La curva discendente degli ultimi due anni, marchiati esclusivamente dall’esecutivo di centrodestra, è la fotografia di una precisa volontà politica. Tradotti in “vil denaro”, come li definisce il rapporto, i numeri sono ancor più eloquenti: da 56,9 miliardi del 2023 si scende ai 55,7 stimati per il 2024. Una stagnazione, se non un taglio vero e proprio, che brucia ancor di più se contestualizzata nella ripresa del Pil post-pandemica. Mentre il paese riparte, la sua scuola arretra.
Il confronto che non ti aspetti
Ma è il confronto con altre voci di spesa a squarciare il velo dell’ipocrisia. Mentre il capitolo “Istruzione” fatica a mantenere il passo, quello della “Difesa” marcia spedito verso l’obiettivo NATO del 2% del Pil, una corsa rilanciata con convinzione dall’attuale governo. Il messaggio è chiaro: la sicurezza nazionale si protegge con i carri armi prima che con le menti ben formate.
È la concretizzazione di un cambio di paradigma culturale: la paura del nemico esterno batte la fiducia nel futuro costruito attraverso l’educazione. Si recuperano con solerzia fondi europei per i cannoni, mentre quelli per i banchi, i laboratori e gli stipendi dei docenti – ancora tra i più bassi d’Europa – sembrano sempre una richiesta scomoda, un lusso da rimandare a tempi migliori.
Una periferia chiamata Futuro
La vera tragedia, sottolinea l’analisi, non è solo nei numeri, ma nell’indifferenza con cui vengono accolti. La Commissione Cultura è trattata come “la periferia” dell’attività politica, un luogo di serie B dove si confinano discussioni considerate non urgenti. Eppure, non c’è investimento più strategico per la sovranità e l’indipendenza di un paese di quello nell’istruzione.
Questi numeri non sono solo statistiche di bilancio. Sono edicolanti che chiudono, sono classi pollaio, sono ricercatori in fuga all’estero, sono un divario con il Nord Europa che si allarga inesorabilmente. Sono la rinuncia a essere una comunità che crede nel proprio domani.
È una scelta, si diceva. E ogni scelta ha un prezzo. Il prezzo di questa lo stanno già pagando gli studenti di oggi e lo pagheranno, ancor più caro, i cittadini di domani. In un mondo sempre più complesso, abbiamo scelto di essere più armati e più ignoranti. È una strategia che, la Storia insegna, non ha mai portato lontano.




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