Parlare di figli è facile. Chiedere “Quando ne fate uno?” è ancora più semplice. Ma dietro a quella che per molti è una domanda innocente, si nasconde spesso una realtà complessa, dolorosa e a volte impossibile da condividere. Rossella Brescia, in una recente intervista, ha raccontato senza filtri come le continue domande sulla maternità possano diventare una ferita aperta, soprattutto per chi ha provato ad avere figli senza riuscirci. Un tema che riguarda molte più persone di quanto si pensi.
Le difficoltà di avere figli: una realtà taciuta
Avere un figlio, per alcune coppie o singoli, non è affatto scontato. Le cause possono essere molteplici: problemi di fertilità, malattie, difficoltà economiche, età, stress o situazioni personali complesse. Eppure, la società tende ancora a considerare la maternità e la paternità come tappe obbligatorie della vita.
Secondo l’OMS, circa il 17% della popolazione mondiale in età fertile soffre di infertilità. Un dato che dovrebbe far riflettere sul peso delle parole e delle domande che, anche se poste con leggerezza, possono riaprire cicatrici profonde.
Il dolore dietro un sorriso di circostanza
Chi riceve continuamente domande del tipo “A quando il bambino?” si trova spesso costretto a sorridere e sviare l’argomento. Quello che gli altri non vedono sono i tentativi falliti, le visite mediche, i trattamenti di fecondazione assistita, o semplicemente la consapevolezza di non poter diventare genitori.Il problema non è solo l’infertilità in sé, ma la pressione sociale che la circonda: si viene giudicati, compatiti o considerati “incompleti”, come se la realizzazione personale passasse obbligatoriamente per la genitorialità.

Il ruolo della società e della cultura
Viviamo ancora in un contesto in cui la domanda sulla maternità è percepita come “normale”. In molti casi, chi la pone non si rende conto di quanto possa essere invasiva. La mancanza di sensibilità su questo tema rivela un problema culturale: l’incapacità di accettare percorsi di vita diversi. C’è chi sceglie consapevolmente di non avere figli e chi, pur desiderandoli, non riesce ad averli. In entrambi i casi, il rispetto per la vita altrui dovrebbe essere la regola, non l’eccezione.
Dalla pressione sociale all’educazione emotiva
Serve un cambio di prospettiva: meno curiosità morbosa e più educazione emotiva. Prima di fare domande personali, bisognerebbe chiedersi se davvero siano necessarie o se possano ferire.Allo stesso tempo, sarebbe utile normalizzare il dialogo sull’infertilità, senza tabù o vergogna, così che chi vive queste difficoltà non si senta isolato.
Le parole hanno un peso, e su temi così intimi come la maternità o la paternità, possono diventare un macigno. La storia di Rossella Brescia è la storia di tante persone: desideri profondi, tentativi, delusioni e la necessità di convivere con domande che fanno male.
La maternità non è un obbligo, ma una possibilità. E quando non arriva — per scelta o per destino — l’unica reazione che dovremmo avere è rispetto.




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