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Depistaggi, silenzi e bugie: lo Stato che ha lasciato morire Stefano Cucchi

Depistaggi, silenzi e bugie: lo Stato che ha lasciato morire Stefano Cucchi

Una nuova sentenza, 15 anni dopo

A quindici anni dalla morte di Stefano Cucchi, una nuova sentenza arriva a scuotere l’opinione pubblica italiana. Il tribunale di Roma ha condannato Giuseppe Perri (maresciallo dei carabinieri) a 3 anni e 6 mesi e Prospero Fortunato (all’epoca capitano dell’Arma) a 4 anni per i reati di depistaggio e falsità ideologica in atti pubblici. È stato invece assolto Maurizio Bertolino, con la formula “perché il fatto non sussiste”.

Per molti, questa non è che l’ennesima pagina di una storia lunga, drammatica e segnata da omertà, bugie e coperture sistematiche. Una storia che ha trascinato le istituzioni dello Stato in un baratro di credibilità e ha lasciato una ferita aperta nella coscienza collettiva del Paese.

Il mistero della morte e i silenzi colpevoli

Stefano Cucchi viene arrestato il 15 ottobre 2009 per possesso di droga. Ha 31 anni, è un giovane geometra romano. Dopo il fermo, viene trasferito nella cella di sicurezza di Tor Sapienza, poi al carcere di Regina Coeli. Dopo una settimana, il 22 ottobre, muore all’ospedale Sandro Pertini.

Le prime immagini diffuse mostrano il suo corpo emaciato, con evidenti segni di percosse. Zigomi fratturati, mascella rotta, ematomi. Eppure nei documenti ufficiali iniziali non si parla di violenza. Le autorità raccontano di un “calo fisiologico”, di “epilessia”, di una “caduta accidentale”. La famiglia Cucchi si trova davanti a un muro. Nessuno sa, nessuno ricorda, nessuno ha visto. Lo Stato, che avrebbe dovuto tutelare, ha invece scelto di coprire.

Un depistaggio durato anni

Le accuse di oggi, che hanno portato a queste due condanne, si riferiscono a un’attività costante e meticolosa di depistaggio. Il pm Giovanni Musarò ha parlato di un “comportamento ossessivo” da parte di alcuni uomini dell’Arma: dal 2009 al 2021, ben dodici anni di falsi, manipolazioni, omissioni, distruzione di prove.

I carabinieri oggi condannati sono accusati di aver modificato verbali, nascosto comunicazioni tra comandi, evitato di segnalare informazioni fondamentali ai magistrati inquirenti. Hanno costruito un racconto alternativo, una verità parallela per proteggere i responsabili del pestaggio.

Le responsabilità dell’Arma e le verità negate

Nel 2019, tre carabinieri furono rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale. Due di loro, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, furono condannati a 12 anni. È la prima volta nella storia repubblicana che si accerta un omicidio avvenuto per mano di forze dell’ordine nel contesto di un arresto.

Ma le responsabilità non finiscono lì. Le indagini successive, da cui nasce il processo appena concluso, hanno dimostrato che all’interno dell’Arma e di alcune istituzioni c’era chi ha consapevolmente ostacolato la giustizia. L’obiettivo? Salvare l’immagine dell’istituzione. Anche a costo di infangare la vittima, delegittimare la famiglia, diffondere menzogne.

La solitudine della famiglia Cucchi

In tutto questo, la famiglia di Stefano, in particolare la sorella Ilaria Cucchi, non ha mai smesso di cercare la verità. Ha affrontato processi, minacce, isolamento, attacchi pubblici. È stata accusata di voler fare spettacolo, di strumentalizzare la tragedia. Ma la storia ha dato loro ragione. È anche grazie alla loro determinazione se oggi si può parlare di giustizia, almeno parziale.

Ilaria è diventata un simbolo della lotta contro gli abusi di potere, una figura pubblica capace di mobilitare l’opinione pubblica, di smuovere le coscienze, di spingere il Parlamento verso una maggiore trasparenza. La sua battaglia ha avuto un costo altissimo, umano e personale, ma ha permesso che il nome di Stefano non fosse dimenticato.

I processi, le condanne e l’eco politica

Il caso Cucchi ha attraversato 15 anni di storia italiana, coinvolgendo governi, ministeri, alti ufficiali, magistrati. Ha fatto emergere le falle strutturali del sistema penale e delle forze dell’ordine. In questi anni si sono celebrati oltre 10 processi: alcuni per omicidio, altri per falso, altri ancora per calunnia e depistaggio.

Le condanne arrivate sono importanti, ma nessuna pena può restituire Stefano alla sua famiglia. Quello che resta è un dossier impressionante di omissioni, bugie e protezioni reciproche. Una rete istituzionale che ha preferito autotutelarsi piuttosto che proteggere un cittadino fragile, arrestato per pochi grammi di hashish.

L’eredità morale del caso Cucchi

Il caso Cucchi ha cambiato l’Italia. Ha aperto un dibattito pubblico sul tema della violenza nelle carceri, della custodia cautelare, della responsabilità delle forze dell’ordine. Ha costretto molti a guardare in faccia la realtà: lo Stato può sbagliare, e quando lo fa, è ancora più difficile ottenere giustizia.

Oggi, con questa sentenza, una parte del puzzle viene ricomposta. Ma l’eco della tragedia continua. Ogni volta che un cittadino entra in una cella, ogni volta che un ragazzo viene fermato da una pattuglia, il nome di Stefano Cucchi torna ad aleggiare. Non come un’ombra, ma come un richiamo alla vigilanza, alla memoria, alla dignità.

Verità, ma troppo tardi

Quindici anni. Tre condanne principali. Due condanne per depistaggio. Un’intera istituzione costretta a confrontarsi con la sua ombra. Ma tutto questo arriva troppo tardi. Troppo tardi per Stefano, troppo tardi per evitare che altri, come lui, finiscano schiacciati da un sistema che protegge sé stesso più di quanto protegga i cittadini.

La giustizia parziale non cancella l’ingiustizia totale subita. Ma è un primo passo. Per chi ha sofferto. Per chi ha taciuto. Per chi ha urlato da solo contro un muro di gomma.
E per tutti noi, che oggi sappiamo, e non possiamo più fingere di non sapere.


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