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Altro che fannulloni: i giovani non accettano più lavori da sfruttati

Altro che fannulloni: i giovani non accettano più lavori da sfruttati

Lo stereotipo da sfatare

È un ritornello che si ripete da anni: “I giovani non hanno voglia di lavorare”, “non si vogliono spostare”, “preferiscono stare sul divano a fare niente”. Ma quanto è vera questa narrazione? I dati ci dicono una storia diversa. In realtà, i giovani italiani vogliono lavorare, ma non sono più disposti ad accettare condizioni umilianti, stipendi da fame o lavori senza prospettiva. È finita l’epoca del “meglio che niente”.

Ciò che viene scambiato per pigrizia è spesso rifiuto di sfruttamento. I ragazzi oggi cercano un impiego dignitoso, con equilibrio tra vita privata e lavoro, e un ambiente dove sentirsi rispettati e valorizzati.

Cosa dicono davvero i dati

L’Italia ha una delle percentuali più alte in Europa di NEET (giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e non si formano). Secondo Openpolis, nel 2023 si trattava del 19% della popolazione giovanile. Ma dietro questo dato si nasconde una realtà articolata. Molti NEET non sono “sfaticati”, ma scoraggiati, esclusi da un mercato che non offre né stabilitàmerito.

Molti ragazzi hanno curriculum eccellenti, parlano più lingue, sono digitali e qualificati, ma si ritrovano intrappolati in una giungla di stage gratuiti, partite IVA finte o contratti a chiamata. Il problema non è la voglia di lavorare, ma la qualità del lavoro proposto.

Non è pigrizia, è consapevolezza

I giovani della Generazione Z, nati tra il 1995 e il 2010, non sono meno volenterosi delle generazioni precedenti. Sono però più consapevoli. Non vogliono sacrificare la salute mentale per un contratto da 800 euro al mese. Preferiscono restare a casa piuttosto che accettare lavori tossici con turni spezzati, orari instabili e zero tutele.

Cercano un impiego che abbia senso, dove possano sentirsi parte di un progetto. Chiedono formazione, possibilità di crescita, e soprattutto rispetto. È una nuova forma di dignità che molti confondono con svogliatezza, ma che è in realtà un rifiuto dell’umiliazione lavorativa.

Perché non vogliono spostarsi?

Altro mito da sfatare: i giovani non vogliono trasferirsi per lavorare. Non è esattamente così. Molti non possono permetterselo. Spostarsi richiede risorse economiche, spesso assenti, e un sistema di welfare che non li sostiene.

Inoltre, se lo stipendio è così basso da non coprire l’affitto di una stanza, perché trasferirsi? Non si tratta di comodità, ma di un ragionamento logico. Alcuni, invece, scelgono di restare vicino alla famiglia per supportarla economicamente o affettivamente. Altri ancora vorrebbero trasferirsi, ma non trovano un lavoro che giustifichi il salto.

Il caso del South Working

Durante la pandemia, molti giovani del Sud che lavoravano al Nord sono tornati nelle loro città natali e hanno continuato a lavorare in smart working. È nato così il fenomeno del South Working: lavorare da remoto mantenendo alta la produttività ma vivendo dove si ha una rete familiare, spese più basse e una qualità della vita migliore.

Questa scelta ha rilanciato borghi e paesi spopolati, creando un nuovo equilibrio tra lavoro e territorio. È la prova che i giovani non rifiutano il lavoro, ma vogliono modelli più sostenibili, compatibili con le proprie esigenze e il proprio benessere.

La Generazione Z vuole di più, non di meno

I ragazzi nati negli anni 2000 sono più istruiti, più tecnologici e più informati. Sanno cosa vale il proprio tempo e rifiutano logiche aziendali che li trattano come numeri usa e getta. Vogliono un lavoro che sia coerente con i loro valori, attento all’ambiente, all’inclusione, al benessere personale.

Preferiscono aziende che offrono smart working, flessibilità oraria, e un vero equilibrio con la vita privata. Non è svogliatezza, ma un nuovo modello culturale, basato sulla consapevolezza dei propri diritti e della propria identità.

Le grandi dimissioni: un segnale chiaro

Il fenomeno della Great Resignation, esploso negli Stati Uniti e arrivato anche in Italia, ha coinvolto proprio i giovani. Molti hanno lasciato volontariamente impieghi sicuri, ma poco gratificanti, per cercare opportunità migliori o cambiare vita.

Non si tratta di capriccio, ma di scelta strategica. Hanno capito che un lavoro tossico può avere costi altissimi in termini di salute mentale, relazioni, equilibrio. Le nuove generazioni preferiscono guadagnare meno ma vivere meglio. È un cambiamento epocale che le imprese devono imparare a comprendere e valorizzare.

Le aziende che funzionano lo hanno capito

Molte imprese illuminate hanno capito che i giovani sono una risorsa, non un problema. Offrono formazione continua, percorsi di crescita, coaching, welfare aziendale e politiche di genitorialità.

Sanno che un giovane motivato, se ascoltato e valorizzato, può portare innovazione, energia e risultati concreti. Ma serve un cambiamento culturale: basta con i capi autoritari, via libera a leader empatici, che guidano con l’esempio e rispettano la persona prima che il ruolo.

L’Italia deve cambiare rotta

Per valorizzare i giovani e fermare la fuga all’estero, servono scelte politiche coraggiose. Bisogna riformare il mercato del lavoro, creare opportunità stabili, sostenere l’imprenditoria giovanile, investire nella formazione e nella mobilità sociale.

Serve anche un welfare più forte, capace di aiutare i giovani nei passaggi chiave: dallo studio al lavoro, dalla casa alla genitorialità. Solo così potremo trattenere i talenti e costruire un Paese che non punisce il coraggio, ma lo premia.

I giovani non sono il problema. Sono la risposta

L’idea che i giovani siano pigri, choosy o viziati è una scorciatoia comoda. Ma è anche falsa. I ragazzi di oggi hanno vissuto crisi economiche, pandemia, guerre, precarietà e cambiamento climatico. E nonostante tutto, continuano a cercare un posto nel mondo, con grinta, creatività e valori forti.

Non vogliono essere sfruttati. Vogliono essere ascoltati, rispettati, responsabilizzati. Vogliono fare la differenza, ma alle giuste condizioni. E se il mondo del lavoro non cambia, è normale che lo rifiutino.

I giovani vogliono lavorare, ma con dignità, rispetto e senso. Basta generalizzare. Basta accusarli di pigrizia per coprire le responsabilità di chi ha costruito un mercato del lavoro ingiusto, povero e senza prospettive.

È tempo di ascoltarli, di creare opportunità vere, e di credere nel loro potenziale. Perché se i giovani si fermano, non è per mancanza di volontà. È perché nessuno ha ancora messo davvero le condizioni per farli partire.


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