Il caso Palozzi e la giustizia che arriva tardi o non arriva affatto
Il 7 luglio 2025, a Rocca di Papa, si è consumato un omicidio che ha lacerato la comunità e riaperto una ferita profonda nella coscienza collettiva. Guglielmo Palozzi, 61 anni, ha ucciso con un colpo di pistola Franco Lollobrigida, l’uomo condannato (in appello) per aver ridotto in fin di vita suo figlio Giuliano durante un pestaggio per un debito di 25 euro. Giuliano è morto dopo cinque mesi di agonia nel 2021. Il colpevole era libero in attesa del terzo grado di giudizio.
Per Palozzi, quella libertà era un insulto. Non ha atteso la Cassazione: ha visto Lollobrigida in strada, ha preso la pistola e ha sparato. Non ha tentato di fuggire.
“Mi ha ucciso il figlio e lo rivedo libero? L’ho fatto per lui, per me, per mio figlio Giuliano.”
(G. Palozzi, secondo indiscrezioni)
Non è solo un delitto. È l’urlo disperato di un padre che si è sentito tradito dalla giustizia. Un atto che grida dolore e vendetta, ma soprattutto fallimento. Il fallimento di uno Stato che non ha saputo essere presente quando contava.

Quando la giustizia dello Stato manca… arriva quella del singolo?
La vicenda di Rocca di Papa è solo l’ultimo tassello di un fenomeno oscuro e inquietante: la giustizia “fatta in casa”. Non parliamo di delinquenti, boss o criminali di professione. Parliamo di persone comuni. Genitori, coniugi, fratelli che – schiacciati dal dolore e dalla percezione di essere stati dimenticati dalle istituzioni – decidono di fare quello che nessun cittadino dovrebbe sentire necessario: vendicarsi.
Queste storie raccontano lo smarrimento di chi ha subito un torto irreparabile e non vede riconosciuto il proprio dolore da leggi lente, cavilli procedurali e condanne annacquate.
È in questa crepa del sistema che si inserisce la follia. Quando la giustizia appare debole, lenta o assente, il cittadino comincia a chiedersi: “Perché dovrei aspettare?”. E la risposta, a volte, arriva nel peggiore dei modi.
La spirale della giustizia mancata: altri casi emblematici
1. Mario Cattaneo – Lodi, 2017
Oste di 67 anni. Di notte entra un ladro nel suo locale, minaccia la famiglia. Cattaneo spara e lo uccide. Sarà accusato di eccesso colposo di legittima difesa. Per mesi l’opinione pubblica si spacca: vittima o carnefice?
Sensazione diffusa: lo Stato punisce chi si difende e tutela i criminali.
2. Luciano Panaro – Torino, 2008
Un anziano pensionato uccide l’uomo che aveva violentato sua figlia adolescente. Dopo anni di processi, lo stupratore viene assolto per “insufficienza di prove”. Panaro lo segue per giorni, poi lo colpisce con un coltello.
Motivo dichiarato: “Ho fatto quello che doveva fare lo Stato.”
3. Anna Rosa Fontana – Napoli, 2014
Madre single, 38 anni. Il figlio di 12 anni muore investito da un’auto pirata. Il colpevole viene rinviato a giudizio per omicidio stradale, ma resta libero. Anna Rosa lo incontra casualmente sei mesi dopo e lo investe volontariamente.
La sua frase: “Ha schiacciato mio figlio e camminava come niente fosse. Ora sa che si soffre.”
4. Massimo M. – Lecce, 2021 (caso riportato da cronache locali)
Dopo anni di denunce per maltrattamenti, la sorella viene trovata morta in casa. Il compagno, già denunciato più volte, era ancora a piede libero. Massimo lo aspetta sotto casa e lo accoltella.
Dichiarazione spontanea: “Lo Stato non l’ha protetta, dovevo farlo io.”
Questi non sono criminali. Sono persone travolte da dolore e impotenza. La loro rabbia non è cieca: è mirata. Verso chi ha fatto loro del male, ma anche verso un sistema che ha lasciato soli loro e le loro vittime.

Giustizia o vendetta? Dove si traccia il confine?
È fondamentale ribadire: la vendetta non può mai sostituire la giustizia. Ma è altrettanto necessario comprendere perché un cittadino arrivi a oltrepassare quel limite.
Dietro ogni gesto di vendetta c’è un dolore bruciante. Un lutto mai elaborato, una sentenza mai arrivata, una condanna giudicata insufficiente. Lì si annida il veleno: l’impressione che lo Stato tuteli i colpevoli più delle vittime. E questo non è solo un problema giuridico, è un problema etico e sociale.
Uno Stato che non riesce a proteggere chi subisce, che non punisce in modo equo e puntuale chi fa del male, alimenta un sentimento di inutilità della legalità. E in questo vuoto morale, l’istinto prende il sopravvento.
Il confine tra giustizia e vendetta diventa allora sempre più sottile. La giustizia richiede tempo, metodo, garanzie per tutti. La vendetta, invece, è immediata, brutale, cieca. Ma quando la giustizia diventa inaccessibile, percepita come inadeguata o troppo distante, la vendetta appare come l’unica risposta concreta.
Eppure, c’è una differenza fondamentale: la giustizia cerca la verità e la riparazione, la vendetta cerca solo equilibrio emotivo e punizione. Una società che non riesce a garantire giustizia rischia di trasformarsi in un’arena di vendette personali, dove la legge viene sostituita dal risentimento e dal dolore.
Comprendere questo non significa giustificare, ma significa prevenire. Solo riconoscendo il disagio profondo che spinge una persona comune a diventare carnefice, possiamo intervenire prima che sia troppo tardi.

Cosa deve cambiare davvero?
Il caso Palozzi è un grido. Un grido a cui dobbiamo rispondere, prima che altri decidano di farsi “giustizia” da soli.
Ecco cosa serve:
- Certezza della pena: una condanna non può restare sospesa per anni. Deve essere chiara, definitiva e rapida.
- Supporto alle vittime: famiglie distrutte, genitori che hanno perso figli, donne che hanno subito violenze. Serve accompagnamento psicologico, legale e umano.
- Una giustizia accessibile e comprensibile: le lungaggini e le formule legali devono lasciare spazio all’etica, al senso di equità.
- Un nuovo patto sociale: ogni cittadino deve sentire che lo Stato è al suo fianco. Solo così si spezza il ciclo della vendetta.
La vendetta non è mai giustizia, ma quando la giustizia fallisce...
Viviamo in una società dove il patto è semplice: tu rinunci alla vendetta, io ti garantisco giustizia. Ma se questo patto si rompe, è l’intero edificio della civiltà a vacillare.
Il gesto di Guglielmo Palozzi non può e non deve essere giustificato. Ma deve farci riflettere. È lì, in quel momento in cui un uomo normale prende in mano una pistola, che vediamo il fallimento collettivo della giustizia italiana.
Serve una riforma vera. Serve ascolto, presenza, rapidità. Serve uno Stato che non lasci soli i suoi cittadini.
Solo così potremo impedire che il dolore diventi follia. E che la vendetta venga vista come unica strada possibile.




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